Etna: quattro lettere costruite attorno a un dissonante gruppo consonantico, dal toponimo greco Aἴτνα (Aitna), che deriverebbe dal verbo greco αἴθω (aíthō), cioè “bruciare” o dal sicano, lingua autoctona, aith-na, che comunque significa “ardente”. Nome aspro come la terra che ne ricopre le pendici, terra di matrice vulcanica, mescolata ai lapilli, che secondo l’uomo etneo per eccellenza, Salvo Foti, sono “terreno che arriva dal cielo”, composto dagli olivini, molecole che portano in grembo silice, ferro e magnesio.

Etna: nel mondo eno-fighetto citare la Muntagna e i suoi vini è di tendenza, quasi quanto interessarsi sui social dei Ferragnez (per i quali il mio interesse è inversamente proporzionale alla loro popolarità, ma nondimeno provo un sottile brivido di confusa emozione ogni volta che sento pronunciare tale sincrasi per l’assonanza che mi rimanda immancabilmente a uno dei più grandi produttori di Passito di Pantelleria, tale Ferrandes, Salvatore, da contrada Mueggen).
Di conseguenza, purtroppo, l’enologia dell’Etna per molti è legata ai nomi che si trovano nella GDO, dove Grande è evidentemente solo un aggettivo quantitativo e non qualitativo. Perché, a ben guardare, sull’Etna ci sono molti “grandi” piccoli artigiani del vino, dove l’aggettivo, qui sì, assume un’accezione qualitativa, piccoli grandi donne e uomini, come il Dustin Hoffman Cheyenne di Arthur Penn. Vorrei raccontarvene qualcuno, vignaioli benedetti, i cui vini sono uno specchio delle contrade in cui coccolano le loro vigne.
Avvicinarsi all’Etna più artigianale rende possibile la comprensione di quanto terreni, contrade e versanti diversi possano segnare in maniera straordinaria il prodotto finale, quanto il terroir faccia la differenza quassù. Vorrei raccontarvi la storia e i vini di due Carmelo, nome che ha un significato iconico se lo colleghiamo alla Muntagna. Mi fa pensare al monte Carmelo, di biblica memoria, e ho riscoperto che quella catena montuosa dell’Alta Galilea, nel suo nome originale, Har ha Karmell significa letteralmente «Vigna di Dio». Sicuramente una singolare coincidenza ma come diceva una mente illuminata di quest’isola, Leonardo Sciascia, “Io credo che le sole cose sicure in questo mondo siano le coincidenze.”
Il primo artigiano è Carmelo Sofia che insieme al padre porta avanti un’idea di vino che negli anni si è solo fisicamente trasferita dal palmento (tipico edificio che sull’Etna è testimonianza vivente di tradizione e patrimonio enologici) del 1873, che utilizzavano per produrre mosto da vendere a clienti locali, alla nuova cantina attrezzata. L’azienda Agricola Sofia produce ora 15.000 bottiglie, fra Piano dei Daini, La Vigna di Gioacchino Rosso e La Vigna di Gioacchino Bianco. In vigna solo zolfo e rame, in vendemmia molta attenzione ai grappoli da portare in cantina; fermentazioni con lieviti indigeni, malolattica senza addizione di batteri e attenzione nei travasi preservando la CO2 per ridurre aggiunte di solforosa, utilizzata in quantità minime.

Carmelo ha tre ettari di vigne suddivisi in due contrade, Piano dei Daini e Pietra Marina a Castiglione di Sicilia. Piano dei Diani è un terreno vulcanico stratificato, sul letto di un antico canalone che, nel corso dei secoli, con le alluvioni e lo scioglimento della neve, ha depositato vari strati di materiale con diverse caratteristiche, dalla polvere finissima ai piccoli ciottoli, fino ad arrivare al “ripiddru” (lapilli, ciottoli lavici) alternatisi nei secoli.

Da provare il loro Piano dei Daini, cru di Nerello Mascalese in purezza prodotto da vigne vecchie, alberelli che hanno dai 60 agli 80 anni; l’alberello etneo, sempre per citare Foti, simbolo della verticalità etnea, è “non solo un concetto di allevare o potare le vigne, ma anche il concetto di interazione fra una vite a l’altra; ecco l’importanza delle giuste distanze fra una vite e l’altra. Come fra gli uomini, giusti spazi, ma vicinanza. Il vigneto è quasi un organismo unico, lasciando l’individualità della vite stessa.”
A Pietra Marina hanno invece piante di 30 anni, su un terreno argilloso, un piccolo fazzoletto di terra ai piedi del versante nord del Monte di Pietra Marina, formazione di pietre arenarie vicino a Moio Alcantara, che l’ha protetto e “risparmiato” dalle colate laviche che non lo hanno colpito nei secoli. E nel cassetto il progetto di vinificare separatamente le uve da questo vigneto, col progetto di poter inserire una nuova etichetta alle tre già in produzione.
Il secondo Carmelo è Carmelo Vecchio, di Vigneti Vecchio. Il cuore storico della sua azienda è in un feudo che si trova in contrada Malpasso, a Verzella, una delle sette frazioni di Castiglione di Sicilia, a 600 mt s.l.m, incastonato sul versante Nord dell’Etna, in una zona molto poco evoluta nell’ultimo secolo. Qui muove i primi passi il nonno di Carmelo, a cui lui deve non solo il cognome ma anche il nome, che lavorava come massaro in questo feudo, sotto il regime della mezzadria.
Negli anni ’70, quando i signorotti locali decisero di vedere, Carmelo senior decise di acquistarne una parte di terreno, suddivisa poi fra i suoi quattro figli, fra cui il papà di Carmelo. Il vigneto di loro proprietà ha meravigliose piante ad alberello ultra centenarie, monumenti lignei scolpiti dagli anni.
Carmelo si è formato enologicamente presso Passopisciaro di Andrea Franchetti, impiego che ha lasciato nel 2018, quando si è lanciato in questa avventura, quasi per gioco inizialmente, coronando anche il sogno di lavorare insieme a sua moglie Rosa. Si ritengono ancora poco più che garagisti, finora la produzione avviene ancora in una cantina poco più grande di 40 metri quadri; ma finalmente la nuova cantina sta per essere completata.
Due ettari di vigneti, 12.00 bottiglie in totale, divise in quattro etichette, Sciare Vive Rosso e Sciare Vive Bianco e i due cru Donna Bianca e Contrada Crasà. Oltre a contrada Malpasso, Carmelo e Rosa hanno vigneti con esposizioni, altitudini e differenze di terreno molto accentuate: uno a 500 metri sul livello del mare a Linguaglossa, terreno argilloso, molto assolato, uno in contrada Crasà, vicino a Solicchiata, vigneto abbandonato e recuperato nel 2016, non facile da lavorare come dimostrano la produzione massima di 2000 bottiglie su 6000 metri di terreno.
Anche Carmelo lavora molto pulito, con interventi in vigna secondo la tradizione, cercando soprattutto di capire quando non è il momento di intervenire. Gli interventi sia in vigna che in cantina sono quindi limitati al minimo, anche perché la maggior parte dei loro vigneti sono ubicati su terrazzamenti, e ovviamente gran parte del lavoro è svolto a mano. Solo zolfo, molto raramente rame; in cantina, l’obiettivo è cercare di accompagnare il prodotto a divenire quello che la natura ha suggerito.
Suggerisco di provare Donna Bianca, Terre Siciliane Rosso, (Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Grenache, ma anche una piccola percentuale di uve bianche, Carricante, Catarratto e Coda di volpe) che viene da un terreno a Randazzo, forse il loro vigneto più etneo: anche se fuori dalla DOC dell’Etna, è situato vicino al centro del vulcano, attraversato da un costone lavico, con la maggior parte delle viti a piede franco.
Queste piante vengono da tralci rubati dalla vigna tradizionale di Horatio Nelson, un vigneto incredibile che gocciola storia da ogni grappolo, impiantato sul fondo del lago stagionale chiamato Gurrida. Questi vigneti risalgono ai primi dell’800 quando, a seguito dei tumulti del 1799, l’ammiraglio Nelson fu inviato a Napoli a capo della flotta inglese per sedare la rivolta e rimettere sul trono il re Ferdinando IV di Borbone. A seguito di questa operazione l’ammiraglio fu insignito dal re di Napoli del titolo di Duca di Bronte, concedendogli la proprietà di quella che all’epoca risultava essere la ducea più estesa di tutto il regno.

Queste due storie sono solo una piccola testimonianza di come esistano moltissimi modi di essere Etnei e di quante possono essere le declinazioni dei vini della Muntagna.
Come mi diceva Rosa, moglie di Carmelo Vecchio, questo è l’Etna della tradizione artigiana, dove si vive la “storia di conoscenze tramandate, di tradizioni, di viti che i vignaioli conoscono quasi per nome, vista la presenza costante nel vigneto.”
E questa storia emozionante non finisce qui…
L’ha ripubblicato su Tra Nerello e Carricante.
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