Di passiti e Zibibbo. Pantelleria, l’isola dolce.

“Esplorando i fondali addormentati intorno all’isola […] avevamo recuperato un’anfora con ghirlande pietrificate che dentro aveva ancora i residui di un vino immemore corroso dagli anni, e avevamo fatto il bagno in una gora fumante le cui acque erano così dense che si poteva quasi camminarvi sopra.” scriveva Gabriel García Márquez.

Nel  nostro viaggio a Pantelleria anche noi abbiamo assaggiato vini, non immemori ma memorabili, cresciuti in acciaio, in botti e anche in anfore, il cui ricordo conserveremo nel tempo. Così come quello degli uomini geniali incontrati, panteschi e no, ma comunque innamorati dell’isola dei dammusi, l’avamposto italiano dell’Africa.

Ringraziandoli per il tempo che ci hanno dedicato,  vogliamo raccontarvi qualcosa che abbiamo raccolto fra trazzere e cantine da Salvatore Ferrandes, Antonio D’Aietti, Gabrio e Giotto Bini e a casa Marco De Bartoli.

Il nostro primo incontro è stato quello con Antonio D’Aietti, enologo storico dell’isola, che abbiamo incontrato a casa Vinisola, presso la cantina di contrada Kazzen. Questa azienda è nata dall’incontro di alcuni amici panteschi, guidati da Francesco Rizzo che hanno messo insieme i loro piccoli appezzamenti di vigneti, sparsi in diverse località dell’Isola (a Rekhale, Scauri, Serraglia, Campobello, Bukkuram e Piana di Ghirlanda). I volumi di uva zibibbo di loro proprietà variano a seconda delle annate dai 150 ai 200 quintali; le uve vengono raccolte in cantina da altri contadini panteschi.

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Abbiamo degustato Zefiro, Zibibbo secco in purezza, che viene dal tipico alberello basso (strisciante) pantesco, l’unico modo perché la vite qui riesca a crescere, protetta dai venti fra i muretti dell’isola. Poi le bollicine di casa: Amanolibera e Shalai: il primo nasce da un’idea proprio di D’Aietti di ispirarsi ad un’antica tradizione locale di produrre un vino frizzantino, con i racemi ed una lunga fermentazione. Quindi a Vinisola decidono di produrre un vino da uve zibibbo tardive a fermentazione lenta, la cui leggera frizzantezza esaltasse la freschezza aromatica tipica del vitigno. Nonostante la grafia che potrebbe ricordare una parola di origine araba (come molte altre dell’isola), Shalai viene dal verbo siciliano “scialare”, con l’idea di divertirsi, godersela (“enjoy”, direbbero gli inglesi). E con questo spumante da uve Zibibbo, ovviamente, realizzato con metodo Martinotti – Charmat, che ne esalta le caratteristiche di fruttato, freschezza ed aromaticità del vitigno. E in conclusione, ça va sans dire, Arbaria (cioè, calma piatta, in dialetto pantesco), il primo assaggio sull’isola di una serie di indimenticabili Passiti di Pantelleria. 20170622_132207Chicca finale, il cru di Zibibbo, A’mmare, che viene da un’unica vigna, sita a Campobello, a 30 metri sul livello del mare e da questi a crca 200 metri in linea d’aria, di proprietà di Francesco Rizzo. In questa parte dell’isola le uve sono pronte molto prima, rispetto ad altre aree, e questo permette una raccolta nella prima quindicina di agosto di grappoli con una maturazione già avanzata. L’annata assaggiata, 2011, ha molto da raccontare del mare che ne spruzza le viti e del vento che le pettina, con una persistenza aromatica notevole, ancora in divenire. Tutto questo condito dai racconti di Antonio D’Aietti, dall’alto dell’esperienza delle sue 37 vendemmie, una vera istituzione per l’isola e per il Passito di Pantelleria. Non potevamo iniziare meglio.

La seconda tappa è stata da Salvatore Ferrandes; visitare Pantelleria e non incontrarlo è come andare a Roma e non vedere il Colosseo. 20170623_190624Nonostante una produzione limitata, nonostante una sorta di pigra gelosia nel distribuire i suoi vini, Ferrandes è per molti l’immagine più sincera e pulita (oltre che più aromatica) del Passito di Pantelleria. Per raggiungere il dammuso spagnolo del 1600, ristrutturato 20 anni fa e adibito a laboratorio e cantina, situato a Mueggen, bisogna farsi guidare da lui, letteralmente nelle ultime centinaia di metri, dove dalla sua terrazza ti guida fra le stradine sterrate che scendono verso il suo piccolo paradiso.

Rileggevo recentemente un articolo che un paio di anni fa lo narrava così: “ Il risultato dei suoi prodotti, del suo passito, è la somma della sua filosofia di vita, dal suo modo di concepire il fare vino, di essere vignaiolo. Un coinvolgimento totale e faticoso nel contesto unico e difficile che è il territorio ed i terreni coltivati di Pantelleria, in cui fare e produrre vini naturali di nicchia, assume quasi un contesto eroico.

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Salvatore ci ha raccontato del suo amore per l’isola, e del suo soffrire a vedere quei terrazzamenti abbandonati, della sua lotta per farli sopravvivere, lotta che credo l’uomo pantesco sia destinato a perdere con le prossime generazioni. Un simbolo di questo suo non arrendersi è quel pendio di fronte al suo dammuso, dove resiste solo un piccolo appezzamento di terra ancora coltivato a vigneto, ed è il terreno di Ferrandes.

20170623_203854E ancora abbiamo ascoltato in un crescendo di passione del suo incontro con Salvo Foti e i suoi Vigneri, dei suoi metodi dolci, assolutamente in armonia con la natura, dei suoi 2 ettari di vigne sparse lungo l’isola, perché i padri lasciandoli in eredità ai loro figli, non solo pensavano a una divisione territoriale, ma anche alla qualità dei terreni, permettendo a tutti di avere una porzione sia di quello più vicino al mare che di quello sul Monte Gibele. Ci ha poi fatto assaggiare 4 annate, partendo dalle più recenti fino ad arrivare al 2008 (e anche un po’ oltre…), e questo ci ha permesso di approfondire e apprezzare progressivamente equilibri, profumi, sentori e sapori secondari che rendono i suoi prodotti poesia liquida, espressione autentica di emozioni maturate fra gli alberelli scossi dal vento di mare.

Un altra sosta che abbiamo ritenuta necessaria è stata poi quella da Marco De Bartoli, se non altro per quello che Marco ha rappresentato (e sta rappresentando) per l’isola e per la rinascita dei suoi vini. Si è trattato di una visita più classica, accolti da Fannie, trapiantata sull’isola dal Veneto e anfitrione di Bukkuram.

Fu il compianto Marco De Bartoli a introdurre nel 1989 l’idea dello Zibibbo secco, a vinificarne le uve, coltivate nella zona più esposte a Nord, in Contrada Cufurà e Contrada Ghirlanda. All’inizio degli anni Ottanta Marco si innamorò di Pantelleria e comprese il potenziale di questa terra, e nella zona di Bukkuram (da sempre votata alla cura dei vigneti, dato che in arabo significa “padre della vigna”) decise di realizzare una nuova cantina, all’interno di un dammuso risalente al Settecento, con circa 5 ettari di vigneto attorno, a 200 metri s.l.m.

20170624_183917I vini degustati qui sono stati Pietranera 2015, lo Zibibbo secco in purezza affinato in vasca d’acciaio, e Integer Zibibbo 2016, che invece viene affinato per almeno 10 mesi in fusti di rovere francese nelle bottaia di Bukkuram, col minimo intervento, senza refrigerazione o filtrazione, e nel totale rispetto del terroir. Spazio nel calice poi per Sole e Vento, che rappresenta la fusione fra i due territori di casa Marco De Bartoli, Marsala e Pantelleria, altra idea che il vulcanico produttore ebbe nel 1997: si tratta quindi di un blend di Grillo, 30% e Zibibbo, al 70%, un vino al naso pericolosamente invitante, ricco di agrumi, zagare e frutti gialli.

Conclusione coi passiti Bukkuram: Sole d’Agosto 2013 e Padre della Vigna 2012. Il primo è il Passito che viene prodotto annualmente qui, con un affinamento di 6 mesi prevalentemente in vasca d’acciaio e un rapido passaggio nelle barrique di rovere francese non nuove. 20170624_194410Padre della Vigna è invece prodotto solo nelle grandi annate, è il risultato di grappoli raccolti fra la seconda settimana di agosto e la prima di settembre. Il 50% delle uve per almeno tre settimane riposano al sole essiccati e protetti fra muretti di pietra lavica. La rimanente parte matura nella pianta sino a settembre e viene aggiunta in seguito. Questo vino passa almeno 42 mesi nei fusti di rovere da 225 litri e 6 mesi nelle vasche d’acciaio.  Infine Fannie ci ha sorpreso con un meraviglioso assaggio di un Padre della Vigna annata 2000; credo (e spero) che ricorderemo nel tempo l’esplosione dei sapori che ci ha regalato. Un vero vino da meditazione, difficile da raccontare e descrivere, impossibile da dimenticare.

L’ultima visita di questa nostra avventura enoica nell’isola è stata dalla famiglia Bini, nell’azienda agricola Serragghia. E’ stato bello per noi incontrare Gabrio, Giotto (e la signora Geneviève)  e capire cosa li ha portati in questo mondo di vini assolutamente naturali. Sì, perché come si legge nel loro sito i loro vini “hanno un profumo che stordisce e un corpo sorprendentemente innocente, perché provengono da uve pulite e non hanno sovrapposizione di legno e cantine“.

Incontrare Gabrio Bini è un’esperienza da fare: avevamo letto di lui, ma la sua avvicinabilità, la sua disponibilità e la sua genialità e inventiva ci hanno comunque sorpreso. E’ entrato nel mondo del vino in età adulta, ma lo ha fatto con una voglia di sperimentare e un entusiasmo raro; l’incontro col professor Scienza gli ha aperto nuovi orizzonti, soprattutto introducendo l’idea delle anfore. Poi Gabrio ha studiato, ricercato sperimentato: abbiamo visitato la sua anforaia, con anfore esclusivamente spagnole (che inspirano ma non traspirano, per l’alta temperatura di cottura che non richiede alcun rivestimento interno), interrate in un terreno di natura tufacea e coperte soltanto da un tappo di marmo di Carrara dei Canaloni, lo stesso marmo usato per realizzare le conche dove stagiona il lardo di Colonnata. La maggior parte di esse sono da 220 litri, ma ve ne sono anche di misura maggiore, fino ad una da 7.00 litri, alta 4 metri.

20170626_120304Gabrio e suo figlio Giotto, titolare dell’azienda (che ha una produzione di straordinaria qualità di capperi salati, o meglio impreziositi, con la “fleur de sel” de Guérande, il “caviale del mare” bretone) hanno condiviso con noi due bottiglie straordinarie: lo Zibibbo Bianco 2014 e il Fanino Rosso 2015, da uve Catarratto e Pignatello, un blend 50/50, rosato nel colore, maturo, corposo e pieno al palato. Due bottiglie piene di aromaticità, salinità, che sprigionano nei calici dove il torbido del vino ne esalta la naturalità e il profondo legame alla terra da cui nasce. Un’esperienza sensoriale coinvolgente e trascinante, che lascia parlare i vitigni una lingua che ci è sembrata quasi sconosciuta, con accenti non riconoscibili in altre bottiglie.20170626_120253 Straordinaria ed emblematica in etichetta la sentenza “Non contiene solfiti” che descrive non soltanto l’integrità di questi vini ma anche il genio di questo vigneron recoltant stappato all’architettura. E mai ratto fu più felice.

Il tempo non ci può bastare per raccontare quello che abbiamo ascoltato, visto e assaporato; lasciamo che qualche immagine aggiunga colore alle nostre parole. Ma tutto il resto lo portiamo dentro di noi, orgogliosi delle persone geniali e appassionate, innamorate dell’isola e profondamente radicate in essa, che in questo viaggio a Pantelleria abbiamo incontrato. Fra loro sono persone molto diverse, i loro vini narrano storie molto differenti, e ci siamo permessi di accomunarli in un racconto solo perché sono tessere di un mosaico meraviglioso e sorprendente, che è quello del mondo dello Zibibbo di Pantelleria, l’isola dolce.

VINISOLA

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FERRANDES

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MARCO DE BARTOLI

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SERRAGGHIA

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